Il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione”. Questa frase, scritta e pronunciata in un contesto preciso, quello della guerra di guerriglia nel Terzo Mondo, quindi in un passato recente, reso remoto tuttavia dallo stritolamento sanguinoso dell’ipotesi politica che in essa si specchiava, fa parte ancora del patrimonio culturale, politico, psicologico, del nostro presente. Cerchiamo di prescindere dal fascino evocativo di questa dichiarazione, e di esplicitarne invece il senso stretto. Sostituiamo uno degli elementi. “È proprio di ogni rivoluzionario fare la rivoluzione (rivoluzionare)”: definizione banale, da vocabolario, tautologica. “È diritto di ogni rivoluzionario...” (affermazione libertaria, coniugazione, fino al limite del paradosso, di una concezione del diritto liberal-radicale; a ogni minoranza, anche ai rivoluzionari, è concessa la libertà di esercizio delle proprie prerogative). “È mestiere di ogni rivoluzionario...” (quest’affermazione proviene da una concezione “professionale” del rivoluzionario, più vicina alla teoria leninista). “Si fa obbligo a ogni rivoluzionario” (affermazione protocollare, burocratica). Che cos’è invece che dà il “senso proprio”, irripetibile, all’affermazione da cui siamo partiti? La parola: “dovere”. Il dovere è un obbligo morale. Ha origine in un patto con sé stessi o con altri, o altro (la Storia, ad esempio). Il suo oggetto è un “debito”, ciò che è dovuto, appunto. Questa frase è fatta per ripetersi tra sé e sé. Fa parte di un diario intimo. Questo genere di “dovere”, per definizione, non procede da un’analisi storica, da un percorso interno alla lotta fra le classi. Può, ma non deve. È spesso parto di una decisione intima, questa frase si pronuncia in un momento “personale”. Può essere la storia personale, più che quella collettiva, a indurre a questo “gesto” della mente, dei sensi, dello stomaco, delle braccia. Profonda e leggera nello stesso tempo, questa scelta, questo gesto, hanno la destrezza, la solarità di un’illuminazione. “Lascia la tua famiglia, e seguimi!”. Il fascino di un percorso desiderante sta proprio nel rifiuto della tematica di “dovere”, in favore di un pronunciamento per “simpatia”. Conosciamo una storia del rapporto: partito/rimozione del soggetto, militanza rivoluzionaria/pratica del sacrificio; non conosciamo ancora, se non attraverso la letteratura, la possibile applicazione di una strategia rivoluzionaria a una pratica di desiderio. A ogni modo nessuno può negare che il tema della trasformazione della vita quotidiana, della qualità della vita, sia entrato, in questa fase storica, a far parte del patrimonio della lotta rivoluzionaria del proletariato moderno. Non si tratta più di questioni di dettaglio, da discutere tra intellettuali utopisti, ma dell’esperienza storica di milioni di individui. “Un uomo che volesse sentire sempre e solo ‘storicamente’ sarebbe simile a colui che viene costretto ad astenersi dal sonno, o all’anima che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione”. Friedrich Nietzsche, “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”). Il movimento del ’77 aveva avvertito l’importanza di un'accumulazione di energie produttive, della costituzione, altrove degli spazi istituzionali, di uno spazio di ricerca, di laboratorio sociale (in senso tecnico-scientifico, soprattutto). Questa è, a mio avviso, la strada da battere, anche se non ci si può nascondere la difficoltà di impiantare e far vivere macchine molecolari di sovversione e di trasformazione sociale; in un momento come quello attuale, in cui la “grande politica” si impone dittatorialmente con i suoi fronti, le sue alleanze, i suoi diktat.



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